“La festa olimpica ha avuto il suo momento drammatico con la morte di Nodar Kumaritashvili: il turbamento si è percepito a pelle. Il silenzio di quel giorno, a poche ore dal via dei Giochi, non era vuoto ma molto rumoroso”. Comincia con il ricordo della tragica scomparsa del giovane atleta georgiano, schiantatosi con il suo slittino durante il pre-gara, la testimonianza di don Mario Lusek, cappellano della nazionale italiana alle Olimpiadi di Vancouver e direttore dell’Ufficio Cei per la pastorale del tempo libero e dello sport. È tradizione delle nazionali olimpiche italiane avere al seguito un cappellano: prima di don Lusek assistente
azzurro era stato don Carlo Mazza, oggi vescovo di Fidenza.
azzurro era stato don Carlo Mazza, oggi vescovo di Fidenza.
Una presenza evidente. “Ho notato – racconta don Lusek al SIR - come in queste Olimpiadi la presenza religiosa sia più evidente e tangibile: in ambito cristiano accanto ai cappellani nazionali di diversa Confessione, cattolica, protestante, ortodossa, la diocesi di Vancouver ha garantito la presenza quotidiana dei propri sacerdoti nei Villaggi e una serie di iniziative, anche ecumeniche, nel territorio. La vita pastorale in un villaggio olimpico deve esprimere vicinanza, presenza, ascolto. I momenti di culto sono proposti all’interno di un serrato calendario di arrivi, partenze, gare, allenamenti, trasferimenti. La partecipazione degli atleti è buona ma non di massa ed è maggiore rispetto a chi non è impegnato direttamente nelle gare. I momenti più significativi sono quelli delle pause: la mensa, gli incontri in casa e durante le gare (i sacerdoti hanno accesso ai campi, ndr). Alcuni atleti chiedono colloqui personali e nei nostri confronti c’è simpatia, accoglienza e disponibilità”.
“Una quaresima laica”. “Si è detto più volte, prima della partenza per il Canada, che gli azzurri non sarebbero riusciti a eguagliare i risultati di Torino 2006 – afferma il cappellano, in riferimento al deludente, finora, medagliere italiano – ma i tempi dello sport seguono quelli dell’umana avventura: ci sono tempi di semina e di raccolta. Ci sono trapassi generazionali da gestire. Ci sono risultati che non vengono conteggiati nella valutazione globale, come i quarti posti o le medaglie non pronosticate alla vigilia. La sfida dei valori, a ogni modo, è la vera sfida: un atleta olimpionico non deve mirare solo a ottenere il podio, ma anche un altro premio che, per citare un salmo, ‘vale molto più dell’oro, di molto oro fino’. Le Olimpiadi sono un evento planetario: uno straordinario palcoscenico che ospita sia campioni affermati sia esordienti, che si sono preparati lontano dai riflettori. Per gli uni e gli altri i Giochi sono sinonimo di sudore, silenzio, disciplina. Benedetto XVI all’Angelus di domenica scorsa ha usato una metafora sportiva, definendo la Quaresima un ‘tempo di agonismo spirituale’. In maniera analoga si può usare la metafora religiosa in ambito sportivo: per raggiungere la meta è necessario un tempo di preparazione, una sorta di quaresima laica che impegna a un corretto agonismo. A chi gareggia sotto i cinque cerchi è chiesto di dimostrare che lo sport è ancora oggi veicolo di amicizia e fraternità”.
L’essenza dello sport. “Il sogno di ogni atleta – sottolinea il sacerdote – è partecipare ad una Olimpiade: se vincere è il massimo obiettivo per qualcuno, poter essere protagonisti è un’occasione unica per tutti. Lo sport in fondo racconta la vita e lo fa nei modi più inaspettati: con una vittoria o con una sconfitta, con la gioia ma anche con la sofferenza. Saper vincere grazie al talento e alle capacità personali e tenere la testa alta nella sconfitta, perché non bisogna mai sentirsi un perdente, nascono da un medesimo impegno: lottare contro i propri limiti, superare gli ostacoli, vivere quell’umiltà che non è applaudita ma che fa grande un uomo al di là dei risultati. Il motto olimpico ‘citius, altius, fortius’ (più veloce, più in alto, più forte) rappresenta una sfida cui tutti gli atleti sono chiamati: assumere la fatica e il sacrificio come regola di vita, ponendo al centro non solo la meta da raggiungere ma anche la propria dignità di persona. Anche quando questo porta a perdere qualcosa. Le Olimpiadi devono mantenere l’essenza dello sport: l’aspetto ludico, la dimensione del gioco. Il gioco esalta il gratuito. Nel momento in cui l’utile ha il sopravvento si demolisce l’impianto portante dell’etica sportiva. Demolita l’essenza dello sport tutto diventa possibile: anche l’inganno, simboleggiato dal doping, e dalla corsa sfrenata al vantaggio. L’aziendalizzazione di alcune discipline, ormai divenute vere imprese economiche, può far correre allo sport il rischio di perdere la sua vera dimensione, che ne è poi l’origine: i Giochi mettono in vetrina molte discipline che possono far riscoprire la natura più bella della pratica sportiva, purché si entri in una logica educativa. Fondamentali, allora, sono la scuola, gli oratori, l’associazionismo sportivo locale e i media, che devono trasmettere il messaggio educativo della competizione”.
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