Vivere
per la giustizia e la pace, combattere ogni forma di odio, razzismo,
emarginazione per “una società costruita sulla dignità,
sull’uguaglianza, sulla fraternità”. Questo l’impegno che i
cristiani delle diverse Chiese intendono prendere preparandosi a
vivere insieme la Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani
che si celebra dal 18 al 25 gennaio e quest’anno ha per tema, “Quel
che il Signore esige da noi” (cfr. Michea 6,6-8).
Il testo delle
meditazioni è preparato dallo Student Christian Movement of India
(Scmi) che ha voluto porre
all’attenzione delle Chiese mondiali lo
stato di ingiustizia in cui vivono, nella cultura indiana, i Dalit.
Il testo parte dalla testimonianza di una storia realmente accaduta a
una donna della comunità Dalit chiamata Sarah. L’incidente narrato
ebbe luogo nel 2008 in Khandamal, nello Stato di Orissa, nell’India
centrale, dove per un mese si scatenò grande violenza. I cristiani
(in maggioranza Dalit) furono attaccati da estremisti Hindu. I luoghi
di culto e le case dei cristiani furono distrutti. Orissa è una
delle città più povere dell’India. Il bilancio della violenza fu
di 59 morti, 115 chiese cristiane distrutte, case danneggiate, e un
totale di 50.000 cristiani senza tetto che cercarono rifugio nelle
foreste e, più tardi, nei campi-profughi organizzati dal Governo
indiano. Maria Chiara Biagioni, per il Sir, ne ha parlato con il
card. Kurt
Koch,
presidente del Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità
dei cristiani.
Quale
significato ha il tema della libertà religiosa per la Settimana di
preghiera?
“I
testi per la Settimana di preghiera evidenziano quest’anno il
problema fondamentale d’ingiustizia che esiste nel sistema di casta
che vige in India. Dietro a questa scelta, emerge però un problema
ancor più fondamentale. La fede cristiana è la fede più
perseguitata nel mondo: l’80% degli uomini perseguitati a causa
della loro appartenenza religiosa sono cristiani. Giovanni Paolo II
fu il primo a parlare dell’ecumenismo dei martiri perché tutte le
Chiese e comunità ecclesiali hanno i loro martiri. Di fronte,
quindi, alla persecuzione dei cristiani nel mondo, la Chiesa
cattolica deve approfondire l’insegnamento della libertà religiosa
perché - come ha detto Benedetto XVI - è il fondamento di tutti i
diritti umani e questo approfondimento è molto importante, anche
attraverso la preghiera”.
Cosa
possono fare le Chiese cristiane?
“Penso
che, in primo luogo, occorra essere solidali nelle situazioni di
violenza, sopraffazione, persecuzione. Le Chiese devono essere più
presenti e soprattutto in Europa i cristiani devono essere più
coscienti di queste situazioni. Noi parliamo di molte cose, di molti
problemi della fede e delle Chiese ma questa sfida molto grande non è
sufficientemente presente. Mi sembra molto importante esprimere
solidarietà affinché i perseguitati nel mondo a causa della loro
fede non si sentano lasciati soli”.
La
Settimana è anche occasione per fare un bilancio “ecumenico”.
Come sta vivendo la Santa Sede gli slanci in avanti in campo etico
intrapresi nella Comunione anglicana?
“Penso
che ci siano due problemi fondamentali. Il primo: l’obiettivo
ecumenico nell’accezione della Chiesa cattolica è una unità
visibile della Chiesa nella fede, nei sacramenti, nei ministeri. Per
cui i cambiamenti delle condizioni per l’accesso al ministero
toccano fondamentalmente il processo ecumenico. Il secondo problema è
che questi cambiamenti riconducono al fatto che le grandi sfide per i
dialoghi ecumenici oggi non sono più di natura dottrinale della
fede, ma sono soprattutto di natura etica. Negli anni ‘70-‘80, si
diceva che la fede divideva ma l’agire univa. Oggi dobbiamo dire
piuttosto il contrario con l’emergere di divisioni a livello etico.
Si tratta, però, di una sfida da approfondire: non soltanto per la
credibilità delle Chiese ma anche per la missione di portare il
messaggio cristiano nelle nostre società. Se le Chiese e le comunità
ecclesiali hanno visioni molto diverse tra loro a livello etico, non
possiamo fare una buona evangelizzazione”.
Un
augurio al nuovo arcivescovo di Canterbury?
“Spero
che possiamo continuare le buone relazioni che abbiamo avuto con
l’arcivescovo Williams. Spero che si possa continuare questo
dialogo dell’amore e dell’amicizia e anche approfondire il
dialogo della verità per le questioni che ci dividono ancora. E gli
auguro buona forza e coraggio perché possa continuare il suo
ministero in un momento in cui l’intera Comunione anglicana del
mondo è attraversata da molte tensioni”.
Quale
l’ostacolo al processo ecumenico che la preoccupa di più?
“Penso
che l’ostacolo fondamentale alla situazione ecumenica oggi è che
non sappiamo più che cosa siano l’ecumenismo e l’obiettivo
finale del movimento ecumenico. Non abbiamo più un consenso su
questi temi fondamentali. Il sinonimo di pluralità è divenuto
intolleranza e questa dogmatizzazione è un grande ostacolo. La sfida
oggi è ritrovare la necessità e la bellezza dell’unità. La
consapevolezza soprattutto che il cristianesimo non si può vivere
senza l’unità. Soprattutto nell’Anno della fede dobbiamo
approfondire le radici teologiche dell’ecumenismo. Questo non è
diplomazia né politica ma qualcosa che va alla radice della nostra
fede perché è quanto Dio esige da noi. Noi uomini non possiamo
comunque fare l’unità né tantomeno prevedere le date in cui si
arriverà a questa meta. L’unità è un dono dello Spirito Santo da
invocare ma noi dobbiamo essere aperti a riceverlo questo dono”. (Agensir)
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