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Due novembre: le grandi domande della vita

I grandi interrogativi che solcano la vita emergono quando meno te l’aspetti, anche nel corso di un interessante viaggio, indubbiamente non dispersivo e futile ma ancorato a richieste ben precise di Bellezza, di conoscenza e di riflessione.
Santo Tomás è un monastero reale del siglo de oro della Spagna, un’imponente costruzione che trasuda da ogni pietra la mente di chi lo progettò e di chi, concretamente, lo volle. È ospitato in quella città di Avila che, nelle sue mura, racchiude come in uno scrigno tanti tesori.
I tre ampi chiostri, le loro decorazioni, il silenzio che vi abita, rimandano a delle grandi presenze che vi
aleggiano: i re Cattolici che lo patrocinarono (si legga finanziarono!) perché vi fosse conservato il corpo del loro unico figlio maschio, l’Infante don Juan, morto a soli 19 anni, in un sepolcro di alabastro, opera di raffinatissima scultura. L’inquietante figura del domenicano Torquemada sepolto nella sacrestia e i cui resti furono violati e dispersi con l’occupazione delle truppe francesi. La catena ininterrotta dei domenicani che calcarono i grandi corridoi e, nel giorno della loro consegna a Dio, varcarono la “porta della grazia”, piccolo e basso varco che portava nella chiesa.
Il tubare dei colombi sui tetti con le loro grida gutturali richiama alla vita presente, ma rimane l’ombra… quanti sono passati per questo “reale monastero” e per le sue aule universitarie? Quali i loro destini e i loro percorsi di vita? Rimangono segni visibili dei più celebri e di tutti gli altri: che cosa resta?
Il buon domenicano tutto dedito allo studio orante della Parola di Dio e Torquedama, con tutto il contorno di immagini funeste che lo accompagnano, vivono e respirano, gomito a gomito, dinanzi al Volto di Dio?
Rita Levi Montalcini, donna che ha saputo sfruttare i talenti ricevuti spendendoli in un’inesausta e difficile ricerca per il bene dell’umanità, nel corso di un’intervista ha affermato: “La morte è solo un piccolo episodio della lunga storia di un uomo”.
D’un canto ha perfettamente ragione, dall’altro proprio torto. Una persona umana, uomo o donna che sia, può avere anche una storia brevissima e “un piccolo episodio” è pur sempre il “suo” episodio. Peraltro l’“unico” non “un” episodio.
In quanto al piccolo ci sarebbe molto da ridire, quantomeno sulla sua irreversibilità: una volta avvenuto è semplicemente concluso.
Nei due versanti: io, persona, dove mai mi trovo? Tutti i parenti, gli amici e i conoscenti, che cosa pensano quando io non tornerò più?
Non nasce l’interrogativo logorante del “vale la pena di vivere” e del perché mettere al mondo un altro essere umano se “un piccolo episodio” lo elimina per sempre dalla storia? Magari ne lascia un sepolcreto, di alabastro come l’Infante, o una tomba vuota come Torquemada. Questo basta?
Rita Levi Montalcini fa leva sulla valenza etica dell’esistenza di chi è vissuto e morto come si deve vivere e morire ed allora, anche al di là della sopravvivenza fisica, proprio perché costoro non si sono abbandonati passivamente al mestiere di vivere, salvano la detta etica valenza.
In fondo, tutto si concentra sul messaggio che si è in grado di trasmettere: “L’arte di morire” non sfiora l’agnostica laica scienziata.
Non sfiora neppure me, di certo non scienziata ma neppure agnostica, sì credente.
Non perché gli interrogativi non danzino dentro di me, in tutta me stessa, ma perché, sempre con grande rispetto e buona pace di R. Levi Montalcini, non affermo: “Io non sono il corpo: io sono la mente”, ma io sono perché l’Io sono che si è rivelato, mi ha plasmato in persona, in cui corpo e mente sono quell’apertura infinita all’Infinito.
I valori permangono, etici, spirituali o evangelici (pur sempre etici e spirituali), permane il messaggio ma è affidato a “un piccolo episodio” che interrompe tutto e, una volta o l’altra, interverrà consegnando tutto e tutti a “un” episodio definitivo.
Penso alla vita come ad una grande traversata su di un mare ignoto e ben noto insieme, sulle onde dell’esistenza che fanno beccheggiare e forse travolgere, ma anche sospingono e portano alla meta: dal mare della vita al mare della Vita della Trinità.
Nel nostro linguaggio corre un’espressione che, nella sua seconda parte, dovremmo apprendere a mutare: in bocca al lupo! Nasce fra i grandi solcatori del mare, i veneziani, che con le loro galere commerciavano e trasportavano grandi tesori, l’augurio augurale appunto suonava: in bocca al lupo!, perché alla Giudecca, sospirato porto d’arrivo, era fissata la “bocca del lupo”, la lavagna su di cui il capitano segnava la data d’arrivo, i marinai e le merci portate in salvo.
La risposta però allora suonava: “Ti protegga il Dio del mare!”, Colui che guida tutti a quel Suo mare dove ci ritroveremo, con la nostra barca, non deposta nell’alabastro dell’illustre sepolcro, non nella voragine della fossa vuota dell’Inquisitore – benché Grande Inquisitore – ma consegnata al Cristo perché tutta la catena degli umani che ha attraversato i secoli si congiunga in lode al Padre. Agensir

Cristiana Dobner
carmelitana scalza

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