Una singolare pubblicità sulla
chirurgia estetica, con ampio spazio all'introspezione, ripropone il
rapporto delle donne (ma anche degli uomini) con il proprio corpo.
Per non parlare degli enormi interessi economici in gioco
“Mi sono rifatta, e allora?”. È
provocante e provocatoria la pubblicità che dal sito di un noto
quotidiano inneggia alla libertà di plastificarsi, ma con stile. No,
per carità, signorina, nessun problema, è nel suo e può farne ciò
che meglio le aggrada. Senza contare che nessuno deve essere
costretto a misurarsi quotidianamente con un’immagine di sé che
rimanda solo sconforto. Mi permetta però di avanzare non dico
critiche, ma quantomeno un paio di dubbi.
Per prima cosa non pensavo, in tutta
sincerità, che le donne italiane fossero in così gravi ambasce con
la percezione del proprio corpo. A scorrere l’elenco di disagi
sopportati dalla modella (finalmente) sorridente, ci si comincia a
guardare intorno con più attenzione e a chiedersi se l’amica
modaiola si cambia ogni giorno perché è una persona ammodo o se
invece anche lei è stanca di avvicendare “modo di vestirmi per
nascondere quelli che sentivo come difetti”. E c’è ampio spazio
anche per l’introspezione. Non sarà che il mio nomadismo innato,
che mi porta a voler vedere ogni estate un mare diverso, in realtà
nasconde un inconfessabile segreto: “In spiaggia, poi, ero sempre a
disagio”... Ma ecco la suadente lusinga, che promette di cambiarti
il corpo per cambiarti la vita, quando il “trucco & parrucco”
non bastano più: “Ho scoperto qualcosa di diverso dalla chirurgia
estetica: la Cosmetic Surgery”. Quindi non è quella brutta cosa
della chirurgia “estetica”, quella che richiedeva un intervento
chirurgico, doloroso, invasivo, faticoso e costoso. Quella che ti
faceva additare con sufficienza, esponendoti al pubblico ludibrio
delle labbra a canotto e del seno ipertrofico da pagina tre del
“Sun”.
No, qui ci si prende cura di sé:
“Faccio sacrifici tutti i giorni, sono sempre di corsa, almeno
voglio sentirmi bene con me stessa”. Che è cosa buona e giusta,
intendiamoci, ma a dar retta alle notizie relative alla chirurgia
estetica si scopre che nel 2012, solo negli Stati Uniti, secondo
l’“American Society of Plastic Surgeons”, sono stati eseguiti
quasi 15 milioni d’interventi di chirurgia plastica con un
incremento del 5% rispetto all’anno precedente. In totale gli
americani hanno speso 11 miliardi di dollari in interventi di tipo
estetico, e le donne fanno la fila per avere il naso della
principessa Kate, attualmente il modello più richiesto in catalogo.
Per tacere dello strombazzatissimo trend in aumento (+24%, altro che
Pil) della chirurgia plastica “intima”, che, a parere degli
esperti, serve per rinsaldare l’autostima della donna, soprattutto
dopo il parto ma non solo.
Ma allora di che cosa stiamo parlando?
Di una chirurgia che interviene davvero a risolvere un grave problema
estetico o piuttosto dell’ennesimo modo furbetto di venderci
un’illusione, facendo leva sulla nostra atavica insicurezza? Anni a
parlare del corpo delle donne, della strumentalizzazione della figura
femminile, e poi ci si arrende così alla prospettiva di
un’aggiustatina che risollevi il morale? In fondo, in tempo di
crisi, di carenza di certezze, vale il motto “hai solo quel che
sei”. E allora via libera all’autodeterminazione: “Finalmente
mi vedo come desideravo essere. E al diavolo quel che può pensare la
gente!”. Ecco, insomma, una sana botta di autostima e
rivendicazione femminista: chi se ne importa di quello che pensano
gli altri! Gli stessi “altri” della cui opinione prima mi
preoccupavo così tanto da non pensare di potermi far vedere in giro.
In una società in cui le donne
subiscono una continua pressione psicologica, un condizionamento a
conformarsi a modelli di bellezza costruiti artificiosamente a colpi
di Photoshop per rendere reale l’innaturale, la spinta a
rivendicare un finto orgoglio di “rifatta” fa un po’ sorridere.
Ah, per la cronaca: c’è anche la versione maschile: mi sono
rifatto, e allora? No, per carità, la parità anzitutto.
Emanuela Vinai
Agensir
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