È tutto il giorno che
sto cercando la foto che mi ritrae con Pietro Mennea a Londra, ma non
la trovo. I molteplici traslochi hanno lasciato strascichi. Tuttavia
l'hanno vista in tanti negli anni passati. Per questo mi permetto con sicurezza di ricordare un aneddoto che ci
riguarda, a mo' di omaggio alla sua persona.
Era l'estate 1986. Io
frequentavo un corso di lingua in una scuola di Covent Garden. Una
mattina arriva pure Pietro. Si iscrive, ma non entra in alcuna
classe. Segue un programma personalizzato. Gli spazi comuni sono però
quello che sono e negli intervalli si sta facilmente insieme. Ad
agosto poi gli italiani la fanno da padrone in ogni angolo d'Inghilterra
e perciò pure lì viene riconosciuto subito. I ragazzi sono incerti
se avvicinarlo per attaccare bottone - confidando nell'amicizia
spontanea che sempre s'accende nei fuori patria - o mantenere le
distanze come si fa con un idolo.
Io invece - come capitava
allora e capita ancor oggi con ogni sportivo di ogni disciplina - non
ho idea di chi sia quell'uomo un po' più anziano di noi sbarbatelli appartato in un angolo della sala di ricreazione.
Mi faccio avanti e mi
presento: “Ciao, Massimo Pavanello”. E lui: “Ciao, Pietro
Mennea”. “Ah, replico io, come quello che corre...”. “No,
sussurra lui, sono io quello che corre...”.
Da quel momento abbiamo condiviso molti momenti insieme nelle due settimane londinesi: spesso il pasto di mezzogiorno, alcune visite alla città e -
un must di quei giorni - quasi ovunque a piedi.
A lui piaceva stare con
me perché parlavamo di tutto con semplicità e non doveva stare sulla difensiva. Non me ne fregava
nulla della sua vicenda sportiva. Mai gli ho fatto una domanda di
atletica (anche perché non sapevo niente). Mai l'ho trattato come un
testimonial. Per strada veniva riconosciuto; qualcuno gli chiedeva
l'autografo, ma lui viveva questa notorietà con una certa timidezza.
Io invece - a differenza
di quanto è consuetudine tra studenti - con lui non ho scambiato
l'indirizzo, a lui non ho reclamato un autografo e ora di lui ho
perso persino la foto. Da quel 1986 mai più un contatto.
Mi rimane però questo
ricordo nitido di Mennea: già da allora - all'apice del successo - ero rimasto
colpito dal prevalere dell'uomo sul personaggio. Non era snobismo,
gli veniva spontaneo considerare lo sport come strumento e non come
fine della vita.
Mi piace pensare che la
mia compagnia disinteressata, in quelle due settimane, gli abbia
regalato un momento di serenità. Per me è stato certamente così. E
anche ora, nella Casa del Padre, lo immagino così.
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