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La festa che ci manca

Beato Angelico, 
Danza del paradiso, 
dettaglio del giudizio universale 1432-35
Oggi la fruizione della festa, anche quando è di massa, è sempre più spiccatamente individuale. Raramente il suo soggetto è una comunità. Quasi inesistente è, in essa, la celebrazione dell'umano che è comune. L'ultima volta che abbiamo festeggiato il nostro orgoglio di essere umani, e ci siamo sentiti fieri dei sacrifici che facciamo per rimanere umani, è stato forse lo sbarco sulla Luna. 
La festa che ci serve (e ora ci manca così tanto) non porta in scena quello che facciamo nel
tempo, bensì quello che intendiamo fare del tempo. Vogliamo consumarlo? Allungarlo? Fermarlo, godercelo? Liberarlo del già vissuto e riconvertirlo sempre daccapo nel puro possibile? Il nostro modo di fare festa è infallibilmente rivelatore proprio su questo tratto di concentrazione simbolica del senso del tempo. Dice infallibilmente quello che vogliamo fare del tempo (o quello che vogliamo che sia) nell'intero della nostra vita, dalla nascita alla morte: e con tutto quello che vi passa attraverso. Il cristianesimo, facendo perno sull'integrazione del riposo sabbatico, della pasqua cristologica e della celebrazione eucaristica, sottrae la festa alla sua risoluzione nella scissione e nella deriva (religiosa e/o secolarizzata) delle sue componenti. 
Il Signore risorto è il tema del riconoscimento, e anche il luogo in cui il riconoscimento diventa motivo di legame e promessa della sua custodia. Nel tempo. E fino a che Egli venga. Non è la stessa cosa che l'animazione religiosa del villaggio. La domenica cristiana conserva il nucleo della polarità necessaria: la celebrazione del sacramento e il libero riconoscimento del legame comunitario essenziale. È proprio impossibile articolare creativamente e limpidamente, intorno alla festa cristiana più semplice e più essenziale, questo punto di gravità (e di leggerezza) della festa che manca (a tutti)?


PierAngelo Sequeri
(L'Osservatore Romano 8 luglio 2012)


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