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Quattro processioni italiane riconosciute dall’Unesco “patrimonio dell’umanità”


Antonio Staglianò, vescovo di Noto e membro della Commissione Cei per la cultura e le comunicazioni sociali, analizza l’attribuzione di "patrimonio dell’umanità" a quattro famose processioni italiane: "Si riconosce che la fede, nelle sue forme semplici e popolari, ha una grande valenza culturale, dove la cultura è intesa come luogo in cui l’uomo diventa più uomo". I rischi del folklorismo, del "fissismo" e delle commistioni mafiose.

La Macchina di Santa Rosa a Viterbo, i Gigli di Nola, la Varia di Palmi e i Candelieri di Sassari: sono queste le quattro processioni italiane riconosciute dall’Unesco come “patrimonio dell’umanità”. Anche la pietà popolare, quindi, è “cultura”: ma qual è il confine tra cultura e folklore, religiosità di popolo e devozionismo? Ne abbiamo
parlato con monsignor Antonio Staglianò, vescovo di Noto e membro della Commissione Cei per la cultura e le comunicazioni sociali.


Grazie all’Unesco, la pietà popolare entra nel patrimonio della cultura?
Sicuramente la notizia è bella e significativa, perché riconosce alla pietà popolare una valenza culturale: la fede è tale perché diventa cultura, e se non diventa cultura non è interamente pensata, pienamente vissuta e genuinamente accolta, come diceva Giovanni Paolo II. Dall’altra parte, la decisione dell’Unesco chiede un particolare approfondimento, specialmente in merito al rischio che tale ambìto e importante riconoscimento si traduca in una sorta di ‘ingessatura’ di una forma particolare di processione, ingabbiando così la pietà popolare dentro un contenitore che la vuole assolutamente fissa. Il rischio, in altre parole - proprio perché tutto ciò che viene dichiarato ‘patrimonio dell’umanità’ dall’Unesco diventa intangibile e immodificabile - è di non potere nel futuro attivare un dinamico rinnovamento di forme e di linguaggi per dire, oggi e domani, lo stesso contenuto di fede”.
C’è quindi il rischio che l’Unesco si limiti a riconoscere gli aspetti folkloristici?
Sì, il pericolo è che ci si limiti alla forma folkloristica, al riconoscimento dello svolgimento delle processioni citate esattamente come si svolgono oggi: cosa che rende impossibile entrare, nella stessa organizzazione delle feste, in modo creativo. Il folklore fa certamente parte del costume di un popolo e di una determinata tradizione, e come tale va valorizzato, ma il ‘fissismo’ vieta di assumere forme nuove di pietà popolare, con un linguaggio più attualizzante e comprensibile ai nostri contemporanei. Lo stesso Papa Francesco, nella Evangelii gaudium, dice espressamente che tante forme di pietà popolare hanno ormai perduto il loro senso e significato e rischiano di essere un omaggio soltanto idolatrico a un passato che non ritornerà più”.
Cosa va conservato e cosa va “attualizzato” nelle nostre processioni?
Sicuramente va salvato l’omaggio al Santo: la processione eucaristica deve essere conservata, in quanto espressione del sentimento di un popolo che nel pellegrinaggio vuole dare visibilità alla propria fede. La devozione al Santo è l’espressione di un popolo in cammino, che mentre cammina sulle strade degli uomini vuole rendere visibile, dare una testimonianza pubblica della propria fede. Ciò che deve restare, in altre parole, è il contenuto che si vuole testimoniare, il grande spessore umano e di fede che si accompagna alle espressioni della pietà popolare. Se, invece, si privilegiano gli aspetti esteriori del costume e non si fanno prevalere le forme pratiche di vita, il rischio è che si snaturi la processione stessa”.
In passato, non sono mancate polemiche per la presenza, in prima fila nelle processioni, di esponenti della criminalità organizzata. Qual è l’atteggiamento della Chiesa?
Negli anni, nelle nostre diocesi si è portata avanti un’opera di grande evangelizzazione, con prese di posizione di alcuni vescovi veramente coraggiose. Posso testimoniare che, almeno nelle nostre parrocchie, è avvenuta molta purificazione. Siccome si tratta però, nel caso delle processioni, di fenomeni di massa, più che di popolo, a volte è difficile governarle, e talvolta può accadere l’incontrollabile… Ma si tratta di casi isolati e di eccezioni: nelle nostre diocesi c’è molta chiarezza sull’inconciliabilità tra appartenenza alla Chiesa e appartenenza alle cosche mafiose”.
Nella Evangelii Gaudium, il Papa parla della forza evangelica della pietà popolare, come “autentica espressione dell’azione missionaria spontanea del popolo di Dio”…

La pietà popolare è la vivacità straordinaria del cuore, che entrando in contatto con Dio si accorge della solidarietà, dell’amicizia, della fraternità che deve creare. Non si fanno le processioni per mostrare i vestiti o la sontuosità degli allestimenti, ma per diffondere più amore. Per questo, salutiamo con gioia la decisione dell’Unesco, che riconosce che la fede, nelle sue forme semplici e popolari, ha una grande valenza culturale, dove la cultura è intesa come luogo in cui l’uomo diventa più uomo. Nello stesso tempo, ci auguriamo però che l’Unesco valorizzi non tanto gli aspetti folkloristici, quanto la qualità interiore, umana, spirituale e cristiana che emerge dalle processioni, in quanto genuine espressioni della pietà popolare”.
M. Michela Nicolais

Agensir

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