La
piccola comunità di Kerch è composta da oltre 300 persone, per lo
più di origine pugliese. Agli inizi del '900, però, erano 5mila. In
prevalenza pescatori e contadini. Poi le purghe staliniane e la morte
nei gulag. Oggi temono per sé e per i propri figli. Ogni domenica
con il parroco Casimiro, polacco di 88 anni, si recita il Padre
Nostro in italiano. Il ruolo dell’associazione "Cerkio"
C’è
un piccolo cuore italiano che vive e batte in Crimea. Lontano
migliaia di chilometri dallo Stivale immerso nel caldo mare del
Mediterraneo, ma le sue radici sono radicate nel ricordo che annulla
le distanze e nell’impegno a non perdere e a mantenere viva
l’identità dei propri padri. Una comunità per lo più di origine
pugliese che ha vissuto lo strazio e l’orrore delle deportazioni
staliniane in Siberia. E che ora ha paura: soprattutto gli anziani
perché sanno fino a che punto può spingersi il male nel cuore
dell’uomo.
L’importanza
di non essere dimenticati.
“È un momento tanto delicato - racconta Giulia
Giacchetti,
raggiunta telefonicamente nella sua casa di Kerch -. Per noi è
davvero molto importante sapere di non essere dimenticati. È
difficile salvare e conservare questa radice culturale che abbiamo
con l’Italia, la lingua, la cultura, la religione. Sono le nostre
tradizioni. Abbiamo bisogno di appoggio. Non chiediamo aiuti
materiali, anche se siamo poveri. Abbiamo bisogno di sapere che per
l’Italia esistiamo ancora”. Giulia Giacchetti, 47 anni, guida
l’associazione “Cerkio” con lo scopo di mantenere vivo lo
spirito e la cultura italiana con lezioni di lingua e grazie
all’aiuto di alcuni enti e associazioni (come la Società Dante
Alighieri), che erogano borse di studio a favore di alcuni giovani
per consentire loro di frequentare corsi di lingua in Italia.
Una
storia di dolore e di morte.
La piccola comunità italiana di Kerch è composta da oltre 300
persone per lo più di origine pugliese. Agli inizi del ‘900, però,
erano 5mila ed erano giunti alcuni per la pesca allo storione, altri
perché allettati dalla disponibilità di buona terra da coltivare.
Dunque una popolazione di pescatori e contadini: si erano organizzati
con una propria scuola, avevano edificato una chiesa e si erano
inseriti agevolmente nella società e nell’economia locale.
Subirono poi come tanti, negli anni 1937 e 1938, le purghe
staliniane, pagando con le prigioni e le esecuzioni sommarie. Fino
alla tragedia finale, subita fra il 29 e il 30 gennaio del 1942 con
la deportazione in Kazakhstan e in Siberia. “Tutta la nostra
minoranza - racconta oggi Giulia - è stata accusata di
collaborazionismo con il fascismo solo per il fatto che eravamo
italiani”. Esposti al freddo e alla fame, molti morirono durante il
viaggio di deportazione, altri li seguirono nei luoghi di detenzione,
nei campi di lavoro e nei gulag. I pochissimi sopravvissuti poterono
ritornare a Kerch solo dopo la morte di Stalin, nel 1956, e
ricostituirono la comunità.
Padre
Casimiro, parroco di 88 anni.
La scuola oggi non c’è più. C’è però a Kerch una parrocchia
cattolica, il cui parroco, di origini polacche, ha compiuto domenica
scorsa 88 anni. “È un parroco coraggioso - dice Giulia -
testimone di un cristianesimo autenticamente vissuto, una persona
eccezionale. Non ci siamo mai pentiti che il Papa non ci abbia
mandato un prete italiano. Padre Casimiro è un dono del cielo”. La
chiesa di Kerch è povera. È specchio della multiculturalità che
caratterizza oggi la Crimea, una terra dove da anni convivono ben 100
etnie diverse. “Padre Casimiro fa recitare quasi sempre il Padre
Nostro nelle lingue di tutte le minoranze - conferma Giulia - e
quindi oltre che in russo anche in italiano, in polacco. E per noi è
sempre un momento molto forte di unità spirituale”. Anche domenica
scorsa a Kerch, si è recitato il Padre Nostro in lingua italiana.
La
paura degli anziani e la preoccupazione dei giovani. Ora
anche qui incombe lo spettro della guerra. “In città le tre
caserme militari - racconta Giulia - sono circondate da persone in
tuta mimetica ma senza mostrine di nazionalità russa. Si capisce
però che sono forze armate russe ma non si sa ufficialmente.
Soprattutto gli anziani hanno paura. Soprattutto quelli che hanno
subito la deportazione. Loro sono molto allarmati. Tutti noi stiamo
chiedendo a Dio che dia la saggezza ai nostri leader politici perché
decidano e trovino soluzioni senza far spargere il sangue. Poi ci
sono i nostri giovani che si preoccupano perché non vogliono andare
in guerra, non vogliono sparare. Essere uccisi e uccidere altri
giovani come loro. Tanti qui in Ucraina hanno amici e parenti in
Russia. Abbiamo alle spalle una lunghissima storia di convivenza
comune. Solo Dio può dare e prendere la vita. Gli uomini non possono
togliere la vita e non possono restituirla”.
Maria
Chiara Biagioni
Agensir
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