Lasciano la terra natale e i propri campi costieri ormai imputriditi dall’acqua salata. Oppure, voltano le spalle a steppe ed altipiani dopo aver pianto armenti decimati dalla siccità. E spesso cercano fortuna, per così dire, in qualche affollata periferia urbana. Dall’Asia meridionale battuta dai monsoni ai Paesi del Sahel africano, ogni giorno migliaia di giovani o di capifamiglia partono. A piedi o dentro corriere stipate. Sperano quasi sempre di ritornare «presto», soprattutto se le avversità climatiche si saranno attenuate. Ma l’urgenza immediata è sopravvivere. E inviare di che vivere a figli, anziani, parenti fragili. I 'migranti climatici' rischiano di sconvolgere i connotati del Pianeta.
L’Onu ha lanciato l’allarme qualche settimana fa, pubblicando un rapporto intitolato Alla ricerca di un riparo. Uno studio che solleva forti controversie, tanto le migrazioni restano un tema politicamente sensibile e difficile da quantificare. Ma almeno un punto è ormai evidente. I migranti I casi opposti del Bangladesh, dove fiumi e mare mangiano terra coltivabile e sommergono le abitazioni, e dell’area del Niger, in cui la siccità ha ridotto notevolmente le possibilità di pesca e di pastorizia climatici non fuggono solo da cataclismi destinati a restare negli annali: siccità eccezionali in Etiopia o Kenya, cicloni nel Golfo del Messico, alluvioni in Bangladesh. Queste catastrofi producono certo esodi improvvisi e drammatici di popolazioni disastrate, com’è accaduto persino negli Stati Uniti dopo le devastazioni di Katrina. Ma anno dopo anno, ad ingrossare le baraccopoli delle cinture umane senza più forma attorno a città come Dacca (Bangladesh) o Lagos (Nigeria) è soprattutto uno stillicidio di arrivi incessanti e quasi furtivi. Lo provano anche le oltre 2mila interviste individuali a corredo del rapporto Onu. Chi ha accettato di raccontare la propria storia di coltivatore o allevatore spiantato e poi finito in uno slum evoca sempre tante ragioni personali dietro la dura scelta di partire. E non si sente un 'rifugiato climatico'. Ma in questi racconti semplici e drammatici, il clima fa sempre almeno da scomodo coprotagonista. Bangladesh: nella morsa delle acque Autentico ricettacolo finale dei portentosi fiumi di origine himalayana, il Bangladesh ha sempre vissuto il proprio rapporto viscerale con l’acqua alternativamente come una benedizione o una maledizione. Ma certi scon- Da una ventina d’anni, la portata dei fiumi è in crescita a causa dello scioglimento dei ghiacciai dell’Himalaya. In un Paese talmente piatto, 3 centimetri d’acqua in più bastano per allargare a dismisura le zone inondate. Al contempo, aumentano le piogge monsoniche per via dell’oceano divenuto più caldo che tende pure, per questo, a dilatarsi maggiormente sulle rive. Ciò 'ingorga' i vastissimi delta fluviali di mangrovie. La penetrazione d’acqua salata nelle falde freatiche ha già ristretto le piane del riso. E per migliaia di famiglie, la scelta è divenuta drastica: adattarsi – attraverso dighe, costose sopraelevazioni delle abitazioni, la diffusione di nuove varietà di riso e altre colture più resistenti alla salinità –, oppure partire. Negli ultimi 20 anni, di fatto, la già babilonica Dacca è cresciuta ancor più del 40%. Oggi, la megalopoli in piena 'saturazione' I migranti saheliani della siccità La più importante vena blu dell’Africa saheliana, il fiume Niger, vive da anni una lenta agonia. A causa della riduzione delle piogge e di prelievi abnormi, il fiume è ormai navigabile solo in parte e affiorano dappertutto isolotti che attestano l’insabbiamento progressivo dell’alveo. Per le popolazioni tradizionalmente dedite alla pesca anche nei vasti ventagli di affluenti, o alla pastorizia nei vecchi pascoli di tutto il bacino idrografico, si è aperto il dilemma di una sussistenza alternativa. La siccità crescente ha spinto migliaia di famiglie ad avvicinarsi ancor più ai pozzi residui e al corso principale del fiume. La popolazione sulle rive riarse cresce del 3% l’anno e l’afflusso di questi migranti climatici alimenta un circolo vizioso che sfianca ancor più il fiu- me. Altri tentano la carta urbana, affluendo nelle periferie di città costiere come Accra o nei 'megaslum' di Lagos. Qui, giungono ogni settimana circa 10mila nuovi aspiranti lavoratori, ma anche altre agglomerazioni africane conoscono tassi di crescita impressionanti superiori al 5% l’anno. C’è poi anche chi decide di puntare verso Nord, sfidando il Sahara e unendosi alle carovane di disperati attirati dalle sirene di un’ipotetica nuova vita in Europa. I dati frammentari finora disponibili mostrano che i migranti climatici africani, così come i loro sfortunati cugini asiatici o centroamericani, privilegiano di gran lunga gli spostamenti di corto raggio e all’interno degli Stati di origine. Ma il futuro di tali migrazioni, sottolineano gli esperti, resta difficilmente prevedibile.
L’Onu ha lanciato l’allarme qualche settimana fa, pubblicando un rapporto intitolato Alla ricerca di un riparo. Uno studio che solleva forti controversie, tanto le migrazioni restano un tema politicamente sensibile e difficile da quantificare. Ma almeno un punto è ormai evidente. I migranti I casi opposti del Bangladesh, dove fiumi e mare mangiano terra coltivabile e sommergono le abitazioni, e dell’area del Niger, in cui la siccità ha ridotto notevolmente le possibilità di pesca e di pastorizia climatici non fuggono solo da cataclismi destinati a restare negli annali: siccità eccezionali in Etiopia o Kenya, cicloni nel Golfo del Messico, alluvioni in Bangladesh. Queste catastrofi producono certo esodi improvvisi e drammatici di popolazioni disastrate, com’è accaduto persino negli Stati Uniti dopo le devastazioni di Katrina. Ma anno dopo anno, ad ingrossare le baraccopoli delle cinture umane senza più forma attorno a città come Dacca (Bangladesh) o Lagos (Nigeria) è soprattutto uno stillicidio di arrivi incessanti e quasi furtivi. Lo provano anche le oltre 2mila interviste individuali a corredo del rapporto Onu. Chi ha accettato di raccontare la propria storia di coltivatore o allevatore spiantato e poi finito in uno slum evoca sempre tante ragioni personali dietro la dura scelta di partire. E non si sente un 'rifugiato climatico'. Ma in questi racconti semplici e drammatici, il clima fa sempre almeno da scomodo coprotagonista. Bangladesh: nella morsa delle acque Autentico ricettacolo finale dei portentosi fiumi di origine himalayana, il Bangladesh ha sempre vissuto il proprio rapporto viscerale con l’acqua alternativamente come una benedizione o una maledizione. Ma certi scon- Da una ventina d’anni, la portata dei fiumi è in crescita a causa dello scioglimento dei ghiacciai dell’Himalaya. In un Paese talmente piatto, 3 centimetri d’acqua in più bastano per allargare a dismisura le zone inondate. Al contempo, aumentano le piogge monsoniche per via dell’oceano divenuto più caldo che tende pure, per questo, a dilatarsi maggiormente sulle rive. Ciò 'ingorga' i vastissimi delta fluviali di mangrovie. La penetrazione d’acqua salata nelle falde freatiche ha già ristretto le piane del riso. E per migliaia di famiglie, la scelta è divenuta drastica: adattarsi – attraverso dighe, costose sopraelevazioni delle abitazioni, la diffusione di nuove varietà di riso e altre colture più resistenti alla salinità –, oppure partire. Negli ultimi 20 anni, di fatto, la già babilonica Dacca è cresciuta ancor più del 40%. Oggi, la megalopoli in piena 'saturazione' I migranti saheliani della siccità La più importante vena blu dell’Africa saheliana, il fiume Niger, vive da anni una lenta agonia. A causa della riduzione delle piogge e di prelievi abnormi, il fiume è ormai navigabile solo in parte e affiorano dappertutto isolotti che attestano l’insabbiamento progressivo dell’alveo. Per le popolazioni tradizionalmente dedite alla pesca anche nei vasti ventagli di affluenti, o alla pastorizia nei vecchi pascoli di tutto il bacino idrografico, si è aperto il dilemma di una sussistenza alternativa. La siccità crescente ha spinto migliaia di famiglie ad avvicinarsi ancor più ai pozzi residui e al corso principale del fiume. La popolazione sulle rive riarse cresce del 3% l’anno e l’afflusso di questi migranti climatici alimenta un circolo vizioso che sfianca ancor più il fiu- me. Altri tentano la carta urbana, affluendo nelle periferie di città costiere come Accra o nei 'megaslum' di Lagos. Qui, giungono ogni settimana circa 10mila nuovi aspiranti lavoratori, ma anche altre agglomerazioni africane conoscono tassi di crescita impressionanti superiori al 5% l’anno. C’è poi anche chi decide di puntare verso Nord, sfidando il Sahara e unendosi alle carovane di disperati attirati dalle sirene di un’ipotetica nuova vita in Europa. I dati frammentari finora disponibili mostrano che i migranti climatici africani, così come i loro sfortunati cugini asiatici o centroamericani, privilegiano di gran lunga gli spostamenti di corto raggio e all’interno degli Stati di origine. Ma il futuro di tali migrazioni, sottolineano gli esperti, resta difficilmente prevedibile.
DANIELE ZAPPALÀ da Avvenire del 1.07.09
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